Captain Fantastic, di Matt Ross (ovvero della barba di Viggo)
Una coppia, delusa dalla realtà politica e culturale dei suoi tempi, decide di crescere ed educare i propri bambini nella natura. Quella che sembra una scelta decisamente estrema e difficile da attuare, si rivela un successo assoluto: i sei bambini sono forti e in salute, e soprattutto colti e ben educati. Si vestono come gli pare, con tanto di berretti stile Giovani Marmotte e maschere antigas, senza definizioni di genere o età. Leggono libri che la nostra società definirebbe inadatti o incomprensibili. Discutono di filosofia e linguistica, dei diritti dell’uomo e dei Fratelli Karamazov, attorno al loro fuoco. Affilano coltelli rudimentali e sgozzano poveri cervi come rito di passaggio all’età adulta. Le splendide montagne lussureggianti dell’America del nord incorniciano l’esistenza certamente dura ma piena di significato della famiglia. Però quando essa viene colpita da un lutto a lungo temuto, la piccola comunità silvestre decide di lasciare il suo piccolo paradiso terrestre per partecipare ai funerali dell’amata madre, contro il volere dei genitori di lei.
Comincia così Captain Fantastic, di Matt Ross, uno dei film più belli ed interessanti (che peraltro mi ha insegnato a cercare di non utilizzare l’aggettivo “interessante” come risposta evasiva a una domanda) dell’anno passato, una storia on the road di crescita spirituale e di riflessione. Nel loro viaggio sgangherato e colorato Ben ed i suoi bellissimi figli vengono messi alla prova con il contatto con quella società nella quale uno di essi non metteva piede da anni, e totalmente aliena agli altri sei. Dal contatto con il cibo americano e la sua (grassa) umanità, con la sua superficialità e incongruenza, il suo semplicistico squallore, la tribù esce scossa e dubbiosa. Il confronto principale del film è quello tra il padre silvestre Ben ed il nonno materno (interpretato da Frank Lagella, favoloso burbero e ricco americano) in quanto rappresentati di due schieramenti opposti, due visioni apparentemente inconciliabili del mondo –consumismo e conformismo contro indipendenza e raziocinio, o illusione e negazionismo contro progresso e civilità?
Quello che Viggo Mortensen (sempre incredibilmente maestoso, e soprendentemente vero) nei panni del barbutissimo padre/capo carismatico incarna in tutta la sua rude bellezza, quella purezza intellettuale che non si piega davanti a nulla, viene nelle due ore del film costantemente messo in discussione con estrema intelligenza, senza pero riuscire a scalfirlo davvero. Come decidere di mettere al mondo delle creature per relegarle in un mondo fittizio seppur perfetto? Come decidere quali libri e quali temi sono appropriati per l’educazione ideale che un genitore può avere in mente, e come mantenere i propri traguardi corretti ed imparziali? Perché insegnare ai propri figli come cacciare, ma non insegnargli i rudimenti del corteggiamento di ragazze cresciute a suon di Mtv? A che punto l’avere ragione si trasforma nell’avere torto? E cosi via. Ogni interrogativo che il regista fa spuntare nella testa dello spettatore ne crea immediatamente un altro, simmetricamente opposto, e non esiste una vera risposta alla moltitudine di dilemmi che ci si presenta. Come se fossimo nella loro tenda a lambiccarci il cervello su Chomskij, cerchiamo disperatamente di decidere se Capitan Fantastic sia buono o cattivo, se stia manipolando i suoi bambini tanto di impedirgli di andare all’università, o gli stia dando le chiavi per capire l’infinito, se egli sia un profeta illuminato o un folle predicatore.
La grandezza del film risiede proprio nel suo costante equilibrio, nel raccontare temi difficili senza scadere nel retorico o nel ridicolo, nel mantenersi sempre in bilico su una lama rotante pericolosa, ma coraggiosa. Non esiste una vera mediazione nel film, e forse questo è il messaggio più forte: la necessità di conciliare l’ideale col reale e l’errore di giudizio che si cela dietro ogni estremizzazione. Quando finalmente, purtroppo nel mio caso verso la fine (la brutale sequenza iniziale di caccia ha scosso la mia anima vegana purista e mi ha rovinato il godimento), ci abbandoniamo semplicemente alla narrazione, e accettiamo la splendida contraddittorietà dell’anima umana, veniamo colti da una mini rivelazione, e l’universo sembra aprirsi anche per noi.
E no, non ha nulla a che fare con la barba del protagonista.