Finzioni | Una miscela di Borges
Harold Bloom, celebre critico letterario statunitense, sostiene che la stranezza dell’arte sia il criterio principale per l’adesione al canone dei grandi scrittori; e nella lista di letterati del suo The Western Canon; The Books and School of the Age non ha mancato di includere Jorge Luis Borges, motivando così la scelta:
“Non sono così sicuro di questo elenco. La profezia culturale è sempre un gioco delle tazze. Non tutte le opere qui possono dimostrare di essere canoniche; la sovrappopolazione letteraria è un pericolo per molti di essi. Ma non ho né escluso né incluso sulla base di politiche culturali di ogni sorta. Quello che ho omesso mi sembra destinato a diventare un insieme di pezzi d’epoca: persino i loro sostenitori “multiculturisti” si rivolteranno contro di loro in altre due generazioni o giù di lì, in modo da liberare spazio per scritti migliori”.
Ciò che colpisce della letteratura di Borges è proprio la stranezza: se è vero infatti che egli era attratto da una scrittura di fantasia, è altrettanto vero che essa è spesso stata molto recherche, radicata nella tradizione arcana; e Finzioni, uno dei suoi maggiori capolavori (sì, ne ha scritti più d’uno) ne è fulgido esempio. La biblioteca di Babele, all’incirca nel mezzo di questa meravigliosa raccolta di racconti, è un buon posto come un altro per cominciare un apprezzamento di uno dei più notevoli scrittori del secolo scorso.
È la descrizione di un universo costituito da un’infinita biblioteca, nelle cui gallerie esagonali sono custoditi tutti i possibili libri di quattrocentodieci pagine, quaranta righe e quaranta lettere ciascuno, senza che ve ne siano due soli identici. Borges snocciola alcuni assiomi: la biblioteca esiste ab aeterno – quindi il futuro del mondo è infinito – e il numero di simboli ortografici è di venticinque, da cui discende la natura caotica e informe dei libri.Gli uomini vi si affannano alla ricerca febbrile del libro totale, della Verità o di una qualunque rivelazione, istupiditi dalla certezza che, se tutto sta scritto, riusciranno pure a trovare qualcosa. Il lettore incuriosito e di buona volontà – non io, per carità – si mette a questo punto a fare i conti, per trovare il numero dei libri contenuti nella biblioteca, per vederne i confini: e cade nel tranello. Borges infatti, dopo aver disorientato chi legge fornendo molte e dettagliate informazioni, conclude soavemente dicendo che essa è infinita – logicamente, tra l’altro: chi potrebbe mai pensare che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli esagoni possano improvvisamente cessare?
In questo breve racconto, come del resto in tutti quelli raccolti in Finzioni, brillano molti degli elementi caratterizzanti della sua opera: la “miscela Borges” è fatta di conoscenza antica, riflessi mitologici di un tono quasi omerico leggermente satirico, immagini di labirinti, metafisica; e di un gioco di apparenze ed apparizioni nel quale realtà e illusione sono quasi indistinguibili. Ne Le rovine circolari, uno dei racconti in cui secondo me si è meglio compiuta la sublimazione di tutto il pensiero novecentesco, questo gioco raggiunge la perfezione: l’uomo che, credendo reale la sua propria vita, si atteggia a semidio nella creazione di un altro uomo attraverso il sogno scopre alla fine – “con sollievo, con umiliazione, con terrore” – di essere egli stesso nulla se non un miraggio, una chimera, un’illusione.
Solo Borges ha saputo creare, tra i letterati suoi coevi, un miscuglio così impensabile di solitudine kafkiana, ironia donchisciottesca, gusto per la vendetta e per il sangue e soprattutto venature esotiche, le cui radici affondano nella sua infanzia. Pur essendo stato forse il più europeo tra gli scrittori sudamericani, infatti poco dopo la sua nascita la famiglia si trasferì a Palermo, un sobborgo nella periferia nord di Buenos Aires – all’epoca noto per la presenza di una sottoclasse vagamente squallida e di compadritos, teppisti armati di coltello. Anche se nel momento in cui la famiglia Borges vi si stabilì il quartiere si era calmato un po’, Palermo portava ancora in sé un retaggio colorato di cabaret e bordelli, un luogo dove uomini violenti e donne lussuriose ballavano il tango e raccontavano storie infiammate di gauchos, combattimenti, vendette.
Era un’eredità che Borges avrebbe assorbito con tutta la passione di un outsider intellettuale che cerca di identificarsi con il fascino del pericolo e dell’illegittimo, e che ha influenzato la sua opera più di quanto egli stesso avrebbe probabilmente immaginato.
La genialità di questo autore, maestro assoluto del racconto breve (ha scritto della “follia” di spiegare in cinquecento pagine un’idea che può essere perfettamente riferita oralmente in cinque minuti) è indiscussa. Tuttavia, nonostante i numerosi riconoscimenti attribuitigli in tutto il mondo, egli non raggiunse mai la vetta più alta, il premio più ambito in ambito letterario – e non solo: il Nobel.
L’ Accademia svedese, si dice, ha mancato di conferirglielo a causa della sua visione politica, estremamente conservatrice, o più specificamente a causa di un’onorificenza ricevuta – ed accettata – da Augusto Pinochet, nonché delle iniziali (poi rettificate) dichiarazioni di sostegno a favore della dittatura militare di Videla. Non so quanto lo scrittore abbia preso con filosofia questa esclusione, ma soleva commentare con ironia: “Non assegnarmi il premio Nobel è diventata una tradizione scandinava”. Posto che i criteri di assegnazione del premio restano insondabili, è giusto che la genialità di un’arte passi in secondo piano rispetto alle discutibili visioni politiche di chi ne è portatore? Qual è il confine che tale visione politica deve oltrepassare per determinare l’impossibilità di ricevere quella prestigiosa onorificenza?
Non sono sicura della risposta.
Ginevra Ripa
titolo | Finzioni
anno | 1955
autore | Jorge Luis Borges
editore | Einaudi
collana | ET Scrittori
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