In questa notte d’autunno | Nazim Hikmet
In questa notte d’autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.
Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini
N. Hikmet, 1948
*
È passato molto tempo dall’ultima volta in cui ho letto Hikmet perché per farlo bisogna essere coraggiosi, come accade sempre quando si ha a che fare con l’assenza: l’oscurità, in essa, risplende.
Quando ero più giovane amavo cullarmi tra le sue forti braccia d’amori e passioni fiammeggianti, capaci di superare le drammatiche vicende personali in cui si trovò compresso: il carcere, la lotta politica, l’esilio.
Oggi, invece, i suoi versi per me galleggiano, come il fantasma benevolo d’un grande amore che non può ritornare.
Hikmet ed io siamo cambiati: sì, perché anche i poeti cambiano intrecciando le loro parole alle nostre vite.
E questo è terribile e bellissimo allo stesso tempo.
Come può esistere un filo conduttore tra anime così diverse? Cosa sottende l’antitesi d’ una assenza presente, d’una lontananza molto più prossima di quanto spazio e tempo possano testimoniare?
Un’apertura all’esistere e alla speranza, in Hikmet, assolutamente irrinunciabile: «Ho perso la mia libertà, ho perso il mio pane, oltre a te, /ma tra fame, tenebre e grida /mai ho perso la fiducia nei giorni che verranno /che alla nostra porta busseranno con le loro mani di sole… //sono felice di esser venuto a questo mondo, /adoro la sua terra, la sua luce […] //vorrei vagare per il mondo, /vedere pesci, frutti, astri mai visti».
L’energia limpida di un poeta capace continuamente di rinnovare la sua adesione alla vita.
Hikmet è una poesia recitata tra due vicinissimi sconosciuti, poggiati ad un muretto, sopra un tetto romano in una notte d’estate. Ed una dedica, sul retro d’un quadro.
“A Massimo per i nostri sette anni insieme, per quella parte di te che mi manca e non potrò mai avere, per tutte le volte che mi hai detto non posso, ma anche per quelle in cui mi hai detto ritornerò! Sempre in attesa, posso chiamare la mia pazienza ‘amore’?”*
* [Le Fate Ignoranti, F. Ozpetek, 2001]
Hikmet, per me, sei tu, il lontano ricordo di quella sera d’inverno e l’impervio sentiero che hai deciso di non percorrere.
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