White Heat | Marco Pierre White e il “calore bianco”
C’era una volta l’Inghilterra, Londra e i suoi sobborghi. C’erano una volta gli anni 80, c’era la Lady di ferro e c’erano i Velvet Underground. E c’era la cucina, quella francese e quella grassoccia dei ricettari per casalinghe. Ma poi, un bel giorno, è arrivato Marco Pierre White col suo “calore bianco”.
White Heat è un libro, e viene da fermarsi qua perché a cercare altre definizioni si rischia di brutto. Più che altro si direbbe che White heat è un libro “ma non solo”: è una raccolta di ricette, ma non solo; è un reportage fotografico, ma non solo; è una provocazione, ma non solo; è la consacrazione di una star, ma non solo. Pubblicato nel 1990 come raccolta editoriale dell’allora nascente e dibattuto personaggio di Marco Pierre White, all’epoca giovanissimo chef della provincia inglese dotato di indubbio talento, inarrestabile grinta e innegabile sex appeal, White Heat si ritrova in qualche modo a fare da spartiacque tra il passato e il futuro della cucina, della società e della comunicazione mediatica britannica.
In effetti, basta uno sguardo alla copertina per capire che quello che si sta per scoperchiare aprendo il volume non è un racconto tradizionale. Ibrida commistione di street-art e alta cucina, White Heat, proprio come il suo autore, parla poco ma sconvolge molto, non passa inosservato, non si dimentica. Nessun colore che esalti arrosti e sughetti nelle foto di Bob Carlos Clarke, piuttosto tanti ritratti dello chef in black and white, delle cucine piene di stoviglie, sporche di fatica, infernali eppure irresistibili: è chiaro che il protagonista non è il cibo. Mai prima di quel momento nessuno aveva osato neppure immaginare tanto, nel mondo della gastronomia. Solo ventisette anni fa, infatti, il dominio incontrastato della tradizione francese era protetto – e quindi garantito – da un’aura di sacralità non tanto dissimile da quella dei potenti d’altri tempi, dei re incoronati per volere di Dio e delle corti adoranti che ne custodivano segreti e scandali, come se la pratica dell’haute cuisine fosse un mistero cui partecipavano solo pochi massoni eletti. E non a caso, il vero prodotto rivoluzionario, prima che il libro, è il suo autore.
Nella sua prefazione alla traduzione italiana dell’autobiografia di Marco Pierre White, The Devil in the kitchen, arrivata lo scorso gennaio per i venticinque anni dalla prima pubblicazione, Andrea Pertini scrive: “Un cuoco così non se l’era sognato nessuno. Capelli corvini, lunghi sino alle spalle, corpo emaciato, sguardo scavato, allucinato. La Marlboro rossa sempre incollata al becco. Accanto a lui, dei giovani corpi fieri d’esibire le ferite della vita. Tutti degli Adoni, compreso Gordon Ramsay, futuro ristoratore copione del suo mentore, che aveva appena smesso di tirare appresso al pallone da footballer professionista; tutti riscappati dagli Inferi, niente avevano a che vedere con l’immagine ufficiale del cuoco tradizionale allora in auge dappertutto, bisunto e scimunito che neanche aveva finito la terza elementare.” Rockstar punkoide, workingclass hero, sex idol di bellezza preraffaellita (come venne definito allora), Marco Pierre White porta in cucina lo stesso irriverente vento di novità che già nella musica e nella politica aveva rianimato la Gran Bretagna dopo gli anni thatcheriani. La rottura col passato è sfacciata, la superiorità tecnica e artistica della cucina del futuro che Marco incarna viene ostentata sulle pagine di White Heat: ogni sua ricetta è una provocazione, come il famoso zampetto di maiale ripieno di animelle (che merita un racconto a parte).
La filosofia di Marco Pierre White è semplice, schietta: bisogna osare, cioè non semplicemente “preparare cibo”, ma fare la propria cucina senza compromessi, superare i limiti e fregarsene se a qualcuno non piace. E a giudicare dalla sua carriera, questo è l’atteggiamento vincente, perché Marco a ventiquattro anni era chef de cusine del ristorante aperto in società con Michael Caine, poco dopo ottenneva la prima stella Michelin e a trentatre anni ne aveva tre, il che gli permetteva a buon ragione di far sfoggio d’arroganza. Tra le varie cose, ad esempio, è rimasto famoso per aver cacciato dal suo ristorante clienti del jet-set, politici, attori, magistrati, critici. Archetipo della fortuna televisiva di Ramsay è proprio il mantra “Fuck you!” di Marco e di White Heat. Il messaggio funziona perché è forte e chiaro e sottintende una verità edonistica tipicamente contemporanea, l’emergenza dal modello conformato, la ribellione in nome della propria unicità, che dietro i fornelli si traduce in un semplicissimo concetto: quello dello chef è un duro lavoro e lo si fa per un solo motivo, per essere adorati come creativi. Secondo Pertini, per l’appunto, “trent’anni prima degli imberbi e dei barbuti hipsterizzati, dei tatuati e delle blogger siliconate sui televisivi fornelli, lo status di chef star lo inventò suo mal grado proprio lui, Marco Pierre White.”
Terrina di porri e aragosta
(ovvero una delle poche ricette di MPW a cui un povero mortale può accostarsi)
Ingredienti:
- 28 porri spuntati e lavati, tutti della stessa dimensione
- 3 code di aragosta di circa 600 gr l’una
- 250 ml di acqua dei porri
- 500 ml di olio d’oliva evo
- 4 cucchiaini di aceto di vino bianco
- 2 rametti di dragoncello
- 1 spicchio d’aglio
- 1 cucchiaino di caviale a porzione
Tagliare la radice a tutti i porri. Aprire col coltello in senso longitudinale, cioè lungo l’estremità verde e legarli insieme per bene dalle estremità bianche, in modo da formare dei fasci, con lo spago.
In una grande pentola di acqua bollente con sale far bollire i porri, mantenendoli completamente sommersi fino a cottura completata. Una volta cotti, scolare i porri con un colino e lasciare raffreddare (possibilmente in una ciotola con acqua e ghiaccio per bloccare la cottura).
Nel frattempo estrarre le code dei crostacei. Portate una pentola d’acqua a ebollizione, salata al punto da sembrare acqua di mare. Mettere le code in acqua a bollore, spegnere subito il fuoco e lasciare cuocere per circa 10-12 minuti con un coperchio. Le code devono essere controllate per accertarsi che siano cotte ma non stracotte. Togliere quindi dall’acqua e coprire con il ghiaccio per mantenere il punto di cottura.
Togliere la carne delle code dal guscio con molta cura e tagliare a pezzi di dimensioni pari ai porri.
Foderare lo stampo della terrina con la pellicola trasparente, assicurandosi che sia ben rivestito all’interno, lasciando un eccesso di pellicola ai lati per avvolgere la terrina. Quindi sovrapporre in alternanza porri e aragoste nello stampo assicurandosi sempre che siano ben stretti e privi di umidità in eccesso. Condire ogni strato con sale e pepe e far sì che l’aragosta sia racchiusa dai porri. Coprire bene con la sporgenza della pellicola trasparente.
Mettere uno stampo identico alla terrina a testa in giù su un vassoio. Girare la terrina riempita a testa in giù e mettere sopra lo stampo base. Mettere un altro vassoio sulla parte superiore e premere saldamente con un mattone. Bucherellare poi dei piccoli fori sulla pellicola trasparente per permettere all’acqua di defluire dalla terrina ed essere quindi conservata per la vinaigrette.
Tenere in pressione in questo modo la terrina per 90 minuti e togliere quindi dallo stampo quando si sarà ben compattata. Tagliate una fetta e porla al centro del piatto( rimuovendo la pellicola trasparente) e condendo con la vinaigrette ottenuta miscelando l’acqua di solo dei porri, l’olio evo e l’aceto. Aggiungere a questa miscela il dragoncello e lo spicchio d’aglio privato dell’anima e sminuzzato, aggiustare di sale e mescolare. Come tocco finale porre al centro della fetta di terrina un cucchiaino di caviale.