Arrival, di Denis Villeneuve
Un’invasione aliena che non scatena una guerra termonucleare; due protagonisti che combattono a suon di linguistica e linguaggio computazionale di Wolfram; un film girato fondamentalmente in tre spazi chiusi e una manciata di campi apertissimi, con le astronavi perennemente sullo sfondo dei dialoghi. Che Arrival di Denis Villeneuve non sia il solito film di fantascienza lo si capisce già nei primi 10 minuti. Questo, però, non basta, ed il regista canadese crea un gioco di specchi straordinario per realizzare un film imprescindibile.
La fantascienza torna ad essere la metafora dell’umano e un film sul comunicare con gli alieni si trasforma in un film sulla comunicazione: con l’altro alieno da noi, con l’altro a noi vicino ed infine con noi stessi. Amy Adams scende la scoscesa china della comunicazione fino a ritrovarsi al punto di partenza, con strepitosa bravura. La spasmodica ricerca scientifica dei due protagonisti, ossessionati dalla soluzione, è l’ossatura dei primi due terzi del film. Amy Adams e Jeremy Renner sono due personaggi ben bilanciati, diversi quanto complementari. L’ultima parte del film, però, abbandona questo binario e vola dalla scienza alla filosofia, dalla linguistica al sogno, inanellando una serie di sequenze di rara potenza, che permettono di accettare l’ostacolo del “colpo di scena” (se così si può chiamare), così come Louise/Amy Adams lo accetta senza cambiare nulla.
Il talento visivo di Villeneuve è altissimo e pervade tutto il film. L’umana natura è rapidamente iscrivibile in linee rette, come la casa di Louise o le costruzioni militari; all’opposto, gli alieni vivono di linee curve, chiuse su se stesse e per questo infinite, circolari come la strutture del film. La nostra e la loro scrittura altro non sono che cristallizzazioni di queste linee. La forma gravida delle astronavi è un continuo rimando ad una delle tematiche portanti del film, quella della maternità, non solo fisica ma soprattutto intellettuale ed umana, di cui Louise si farà portatrice, stoica perché decisa ad accettarla, senza cambiare nulla. In un paio di scene il riferimento a 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick è chiaro, soprattutto per alcune inquadrature sovrapponibili, ma a differenza di Interstellar, Arrival è in grado di affermare la propria autonomia intellettuale e cinematografica. Il netto monolite kubrickiano forgiava la civiltà nella lotta ed invitava l’astronauta ad una regressione, verso stadi primordiali; la linea stondata della astronavi di Arrival, al contrario, vuole ri-creare la civiltà sulla comunicazione e lo fa invitando ad una nuova rinascita, a farsi madri, dunque portatrici, di nuova vita, sia metaforicamente che non.
Arrival è un film abbacinante, emozionante, che lascia di stucco. Il contatto con una nuova forma di vita, formata però da qualcosa di antico, come una lingua madre.
Voto: 9
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