Silence, di Martin Scorsese
Alleggeritosi dei pesanti orpelli degli ultimi anni e film (tra tutti, Leonardo Di Caprio), Scorsese affronta con Silence la sfida di proporre ad un pubblico disabituato un dramma storico di lunga durata (quasi tre ore), che affronta la missione dei gesuiti inviati a convertire/colonizzare il Giappone nel seicento.
Non è facile scommettere su un dramma storico, per giunta così lungo e dalla tematica così spigolosa, nel 2017. Eppure Scorsese ha messo tutto se stesso nella realizzazione del film, che insegue una tematica che accompagna il suo cinema fin dagli esordi (Mean Street, tanto per dire): la religione ed il rapporto con essa. Il film, in questo senso, può essere letto su più piani o binari, che corrono paralleli. Silence narra la vicenda storica della missione di due giovani gesuiti, ma anche il cammino interiore di padre Rodrigues (Andrew Garfiled), ma anche lo stoicismo di un popolo intero, ancorato alle usanze antiche, anche quando sembrano abbracciare una fede nuova. Al centro di tutto, infine, rimane il dubbio, vero nucleo tematico del film. Non solo il dubbio sulla esistenza di Dio, ma soprattutto il dubbio della necessità di una religione, della sua esportazione e, ancora, il dubbio che volere il bene, talvolta, ha delle conseguenze catastrofiche, sugli altri.
Un nucleo tematico così difficile, viene reso da Scorsese con maestria, senza la pomposità registica degli ultimi film (Wolf of Wall Street), ma ugualmente intercalando un racconto sobrio con alcune sequenze di rara bellezza. Ne sono esempi lampanti la scena della crocifissione in acqua e della successiva pira funebre, così come la decapitazione vista attraverso la “croce” delle sbarre della prigione. Il regista si permette anche qualche divagazione “moderna”, come il fish eye sulla scalinata in una delle scene più programmatiche del film, quella in cui vediamo delinearsi il profilo del viaggio dei protagonisti: non una scalata, infatti, né una discesa; la scala porta le vite parallele dei protagonisti in un percorso orizzontale, verso un terreno ignoto (il dubbio, appunto), che si allontana dal divino (verticale) per abbracciare l’umano (orizzontale). Scorsese paga qualche debito a Dersu Uzala di Kurosawa, così come al classico cinema americano anni 70-80 (su tutti Mission di Roland Joffé), ma riesce anche a svincolarsi dai modelli.
In questo percorso il personaggio più iconico è la guida giapponese Kichijiro (interpretato da Tadanobu Asano) – mi chiedo se volutamente. Lui incarna più di tutti l’umano, debole ma non cattivo. Dentro di lui convivono le figure di Giuda e di Gesù uomo, quello che sedeva a tavola a bere vino, capace di umiliarsi fino alla polvere, perché solo così si è realmente umani. Una figura pasoliniana, al pari del protagonista de La Ricotta. Nonostante diversi tentativi, padre Rodrigues non assurge mai a figura cristologica, troppo compreso nella sua superbia, portatore di una religiosità molto americana e monolitica. Impossibile esportare il cristianesimo in un Giappone feudale, chiuso e superstizioso. Eppure, fino alla fine, Rodrigues pasce la propria ambizione nelle richieste di redenzione di Kichijiro, dimostrando di non aver capito nulla e di non essere in grado di cambiare in alcun modo.
Il film contiene, però, anche molte imperfezioni, che ne appesantiscono una struttura già non leggera. Innanzitutto, ci sono storture nella scrittura dei personaggi. I gesuiti, infatti, nascono come preti soldati, dediti all’erudizione ed allo studio, forti con la retorica come con la spada (il Cardinal Bellarmino costrinse Galileo all’abiura non confutando il contenuto delle sue tesi, ma la forma – e aveva pure ragione! NdS). I protagonisti, al contrario, sono due ragazzini spaventati da tutto, capaci solo di affermare con sicumera di portare la verità, senza una reale argomentazione di quest’ultima. Molto più interessanti sono, invece, i personaggi giapponesi: oltre al già citato Kichijiro, anche l’Inquisitore Inoue ports con sé una complessità di visioni e di pensiero ignota ai gesuiti. A questo si aggiunge che, ancora una volta, Scorsese si affida ad attori bravi ma non eccellenti, incapaci di rendere la profondità che un tale film richiederebbe. Adam Driver ha poco spazio e poca capacità; Liam Neeson fatica ad andare oltre una controllata calma. Il lavoro più interessante è quello svolto da Garfield, che, però, non raggiunge l’eccellenza che avremmo sperato, con passaggi emotivi troppo repentini e poco giustificabili.
L’altro grande problema del film sono i 20 minuti abbondanti che rimangono dopo lo scioglimento della tensione (interiore ed esteriore) di padre Rodrigues. Eccessivi, incapaci di aggiungere altro (se non un finale buonista poco interessante) e senza il ritmo che aveva, fino a quel momento, sostenuto il film. L’ultimo, ma più importante, neo del film, infine, risiede nelle troppe e troppo intrusive voci narranti fuori campo. Nel complesso tre, diverse, e in almeno un paio di occasioni completamente prive di ragione alcuna. Quando poi, nel finale, anche Gesù si mette a parlare, il capolavoro crolla irrimediabilmente. Rompere quel “Silenzio” è fastidioso e nega l’essenza stessa (bellissima) di tutto il film.
Scorsese non è Guareschi; Rodrigues non è Don Camillo. Suvvia.
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[…] un grande assente e un po’ mi dispiace: Silence di Scorsese, candidato solo per premi minori, senza alcun motivo. Detto questo, io parteggio […]