Amarti m’affatica. 69 Love Songs dei Magnetic Fields
The book of love is long and boring
no one can lift the damn thing
it’s full of charts and facts and figures and instructions for dancing
but I, I love it when you read to me
and you, you can read me anything
The book of love has music in it
in fact that’s where music comes from
some of it is just transcendental
some of it is just really dumb
but I, I love it when you sing to me
and you, you can sing me anything
The book of love is long and boring
and written very long ago
it’s full of flowers and heart-shaped boxes
and things we’re all too young to know
but I, I love it when you give me things
and you, you ought to give me wedding rings
Sì, certo: My Finale di Scrubs. Ma per me The Book Of Love dei Magnetic Fields – nella sua versione originale e non in quella di Peter Gabriel che le ha dato nuova notorietà – sarà per sempre legata a un momento particolarmente felice, il matrimonio di due amici bellissimi ormai qualche estate fa; non un matrimonio qualsiasi, però, stavolta – ta-dah! – ero io a celebrarlo, purtroppo per gli sposi. Mesi e mesi di limatura di un discorso di cinque minuti, lunga scelta del colore delle Converse, Google Doc condiviso con la scaletta dell’evento (scusate, lo faccio anche per le vacanze estive). Però alla fine di tutto volevo infilare una canzone, qualcosa che stesse bene col tono serio ma tenero ma ironico ma sentito (e quindi, per la combinazione lineare dei quattro elementi, un po’ sfigato) del discorso, ed è stato naturale pensare allo sguardo sulle cose della vita e dell’amore – diciamo romantico e, in superficie, ottimistico come quello di un cane bagnato sotto una pioggia incessante – di Stephin Merritt, uno che in quasi trent’anni di carriera ha costruito uno dei maggiori canzonieri pop che la Storia ricordi.
Non sto esagerando, per niente. Di volta in volta cinico e sarcastico, inconsolabile e melenso, serissimo e autoironico, l’Uomo verrà ricordato soprattutto per un’opera monumentale, quel 69 Love Songs che è il mio regalo di San Valentino a tutti voi che state leggendo: date retta, alla fine di queste tre ore di melodie memorabili, perfette e perfino un po’ cretine (una componente essenziale, come avrete modo di sentire), ne avrete la vita cambiata. La sposa, alla fine del testo, non ha lanciato pomodori: e già questo, conoscendo la sua passione per il tocco delicato dei Bon Jovi e di Max Pezzali, mi pare un dato indicativo per trovare la voglia di buttarcisi a capofitto; il parere dello sposo, fisico imperturbabile a impatto emotivo zero, non è pervenuto.
There’ll be time enough for rocking when we’re old
we can rock all day in rocking chairs of gold but tonight
I think I’d rather just go dancing
there’ll be time enough for rocking when we’re old, my love
Di Merritt e dei suoi Magnetic Fields ho imparato a conoscere i nomi a partire da un libretto dedicato all’indie-rock americano uscito con Rumore nel 2002 (devo averlo già citato, qui su SALT, e nel caso mi scuso, ma per me è stata una lettura realmente life-changing). Lì si parlava di 69 Love Songs, che in fondo era uscito da soli tre anni e già si qualificava come una delle pietre miliari della canzone pop di fine millennio: come ho scoperto dopo, non era che il punto centrale di una produzione impressionante, che già nel corso dei primi anni Novanta aveva fruttato cinque album di puro, nerdissimo indie-pop, di cui almeno due meravigliosi (Holiday e The Charm Of The Highway Strip, se volete, ve li recuperate entrambi in un’oretta). Una roba totalmente fuori dal tempo: immaginatevi un baritono annoiato che canta uno strambo synth-pop orchestrale come Take Ecstasy With Me mentre tutt’intorno infuria la coda della tempesta elettrica grunge e le classifiche straripano di chitarre.
Di cos’è fatta, la magia di Merritt? Di un orecchio assoluto per la melodia pop, figlio di un’educazione musicale classica e della vergognosa, smodata passione per il musical di Broadway e gli ABBA (adesso è ok, il kitsch l’abbiamo sdoganato, ma pensatevi a dire a voce alta questa cosa, un quarto di secolo fa: vi sarebbero venuti a prendere con mazze e pietre); di una voglia di mischiare insieme tutti i generi immaginabili, eccezion fatta appunto per il rock pesante (quando ci metterà le distorsioni di chitarra, appropriatamente nel clamoroso Distortion del 2008, sarà per farci una specie di tesi di dottorato a tema); di un talento lirico inesauribile, accostato spesso a quello di Cole Porter, e di una conoscenza enciclopedica della storia dei grandi classici pop come Tin Pan Alley o Leonard Bernstein; di New York, di tanta New York, anche se nella vita di Merritt ci sono state 33 case diverse in 23 anni di vita: perché una musica e un artista simili sono letteralmente inconcepibili altrove.
Don’t fall in love with me yet, we only recently met
true I’m in love with you but you might decide I’m a nut
give me a week or two to Go absolutely cuckoo
then, when you see your error, then you can flee in terror
like everybody else does, I only tell you this ‘cause
I’m easy to get rid of but not if you fall in love
know now that I’m on the make and if you make a mistake
my heart will certainly break, I’ll have to jump in a lake
and all my friends will blame you, there’s no telling what they’ll do
it’s only fair to tell you, I’m absolutely cuckoo
Bastano meno di cento secondi a Merritt per agganciarti, tanto dura l’apertura Absolutely Cuckoo, filastrocca stupendamente idiota per voci sovrapposte e chitarrine assortite che ha il pregio di definire quella sensazione d’insensata gioia priva di scopo che si prova quando s’incontra qualcuno di nuovo – o che almeno lui e io proviamo mentre corriamo felici incontro all’ennesimo incidente stradale sentimentale. È incredibile come questo pezzo saltellante e giocoso s’incastri alla perfezione con lo sdilinquirsi pop della tragicomica ballad I Don’t Believe In The Sun (un posto in cui, da quando lei/lui se n’è andata/o, è notte tutto il giorno e piove pure), il country-folk A Chicken With Its Head Cut Off (è il cuore, qui, che s’aggira sperduto come un pollo con la testa tagliata), l’elegiaca Come Back From San Francisco. E provate a non scendere per strada con la bombetta e roteando il vostro bastone migliore mentre fischiettate The Luckiest Guy On The Lower East Side e I Think I Need A New Heart, giusto un attimo prima di ritrovarvi a rimuginare The Book Of Love: che ci crediate o no, tutti questi tesori stanno nella prima metà del primo dei tre CD.
Non è solo, Stephin, in questa straordinaria impresa di raccontare l’amore attraverso il canone della canzone d’amore; armati di un arsenale di strumenti impressionante, lo accompagnano l’amica Claudia Gonson (piano, percussioni), John Woo (non quello di Face/Off, un altro: per lui chitarre, banjo e mandolino), Sam Davol (violoncello, flauto), Daniel Handler (fisarmonica) e le voci di Shirley Simms, LD Beghtol e Dudley Klute. Nel primo terzo della raccolta stanno i pezzi forse più classici, mentre nella seconda parte la fa da padrone il pop più puro: When My Boy Walks Down The Street (tipo Jesus And Mary Chain suonati in bassa fedeltà nella stanza a fianco), cori da cheerleader come Washington D.C. o da infarto istantaneo come l’attacco celestiale di Epitaph For My Heart. Oppure ancora: numeri da musical in miniatura come Very Funny, tocchi lounge-jazz (World Love) (“viva la musica pop”, dice il ritornello: impossibile dargli torto), inviti amorosi “motivazionali” (Kiss Me Like You Mean It).
E infine, quarantesima in programma, Papa Was a Rodeo è semplicemente una delle mie dieci canzoni pop della vita, cinque minuti di elegia per piano elettrico, sparse note di chitarra, batteria trattenuta e un memorabile alternarsi di voci: Merritt non si prende mai la briga di dirci chi sia chi nelle sue canzoni, né i suoi pezzi sono banali coming out o semplicemente storie d’amore gay o etero (tant’è che qui il Mike chiamato in causa all’inizio del pezzo alla fine è interpretato da una donna), ma in quei cinque minuti – così ironici, così solo apparentemente distaccati – sa esprimere un sentimento talmente reale, naturale e insopprimibile da mandare a stendere quasi ogni altra canzone che si sforzi di risultare altrettanto intensa e credibile. Per dirla in due parole: quando avete il cuore a pezzi, Papa Was a Rodeo è la colla.
I should have forgotten you long ago, but you’re in every song I know
whining and pining is wrong and so
on and so forth, of course of course
but no, you can’t have a divorce
I haven’t seen you in ages, but it’s not as bleak as it seems
we still dance on whirling stages in my Busby Berkeley dreams
the tears have stained all the pages Of my True Romance magazines
we still dance in my outrageously beautiful Busby Berkeley dreams
Resta da dire solo di un terzo CD in cui si raccolgono forse gli episodi più strampalati – non ve l’ho detto, ma ci sono assurde stramberie, qui dentro, ben incastonate in un quadro d’insieme da capogiro – e pure alcune delle canzoni migliori: penso al reggae congelato It’s A Crime, a un paio di goduriosissime fantasie omicide (le vittime: la moglie in Yeah! Oh Yeah! e il linguista Ferdinand de Saussure nella traccia quasi omonima, colpevole di non capire l’amore), ad alcune filastrocche sfacciate (The Night You Can’t Remember ha un testo che mi spezza ogni volta), alle ballate più cristalline (la pianistica Busby Berkeley Dreams, l’ovviamente acustica Acoustic Guitar).
69 Love Songs si è affermato negli anni come un vero classico, un mastodonte con cui chiunque si cimenti con la canzone pop è tenuto a confrontarsi. Ma il vero motivo del suo interesse, qui e ora e in questo specifico San Valentino, è per me quell’incredibile capacità di emozionare per tre ore filate, nonostante sulla carta questa cosa somigli più a un trattato filosofico a firma Magnetic Fields sul concetto di canzone che non un album vero e proprio. Lo fa perché, al netto di tutta l’ironia e l’autoironia, Stephin Merritt lascia filtrare una visione dell’esistenza che dell’esistenza sa comprendere tutto: il dramma e la comicità, l’impertinenza di quando ci si sente invincibili e la sfiga perenne imposta dalla realtà. E la voglia, spesso, di sentirsi solo un po’ stupidi e lasciarsi andare per vedere l’effetto che fa.
Titolo | 69 Love Songs
Artista | The Magnetic Fields
Durata | 172’
Etichetta | Domino