47 meters down; di squali di mare e di altre angosce
I film di squali sono oramai una categoria a sé stante, ben codificata e con vari sotto generi: squali veri, squali finti, squali volanti e tanti altri, ognuno con il suo zoccolo duro di fan fedeli e agguerriti.
Eppure c’è qualcosa di strano nello scegliere lo squalo come cattivo di un film. In effetti sono animali che se paragonati ad altri sono dei veri dilettanti in termini di body-count. Già solo elefanti e ippopotami fanno parecchie più vittime annuali, coi coccodrilli poi si entra nell’ordine delle parecchie centinaia, e coi serpenti delle parecchie migliaia. Gli squali? Difficilmente arrivano a 10.
Con questo non voglio farvi spostare le paranoie da un taxon ad un altro. Semplicemente vorrei domandarvi: cosa rende più paurosi gli squali degli ippopotami o degli orsi? Perché sono loro i protagonisti assoluti di quel meraviglioso filone cinematografico che prospera nel trash ma ogni tanto regala ver e propri capolavori che si chiama “natural-horror”?
La risposta è semplice: il mare.
È il mare a farci paura: il vasto, meraviglioso, terribile abisso.
Purtroppo nella maggior parte dei film di squali sono loro al centro della dinamica, la cosa di cui aver paura a prescindere da tutto il resto. Si è arrivato addirittura dal toglierli dal proprio ambiente naturale facendoli diventare creature sotterranee simil-graboid. Ecco, no (Almeno ridatemi Tremors! NdR).
Voglio dire che se personifichi lo squalo, lo fai diventare un villain vero e concreto, senza puntare sulle emozioni che un ambiente evocativo e terrificante come il mare suscita in ognuno di noi, molto probabilmente otterrai un risultato ridicolo. Con gli squali bisogna giocare di sottrazione e quindi fare leva sul fatto che a incantarci non è tanto la loro presenza quanto la loro possibilità, in un ambiente che noi proprio non possiamo dominare. Bisogna sentirli ma non vederli. Come l’aglio nel sugo.
Alla base di un buon film di squali ci deve essere quindi una buona valorizzazione dell’ambiente: partendo da film come Open Water in cui gli squali sono solo la conseguenza più immediata di un luogo già parecchio ostile e mortale di suo, fino all’astrattizzazione raggiunta con Lo Squalo dove il mare diventa una terra di nessuno in cui s’adempie l’eterno scontro tra il bene e il male, un campo di battaglia come lo era stato per Achab e Moby Dick.
47 Meters Down, che forse conoscete col titolo di In the deep a causa della sua bizzarra storia produttiva (Oh no, Weinstein anche qui!), di tale Johannes Roberts, ci porta, come suggerisce il nome, a 47 metri di profondità. Dopo una serata di bagordi e bella vita, le due sorelle Lisa (Mandy Moore) e Kate (Claire Holt), al grido di YOLO, decidono di partecipare ad una cage-dive per vedere gli squali. Ovviamente tutto va storto e finiscono laggiù a fare compagnia alle sogliole e agli scorfani. Se avete mai fatto immersione saprete che dopo i 30 metri è buio, fa freddo, e l’azoto è più inebriante del vinello di vostro zio Tonino. Non è un bel posto in cui stare, specie se non siete subacquei esperti (aka: è la vostra prima immersione), avete ovviamente una scorta limitata d’aria e sulle vostre teste girano, non visti, tanti squali grossi (troppo grossi). Questo è il film.
Per circa un’ora e venti ci troviamo bloccati in quella scomoda posizione a cavallo tra “essere spacciati” e “continuare a esistere”: la vediamo la salvezza, è appena un millimetro oltre la nostra portata. Troppo poco per accettare la morte inevitabile ma comunque macabramente e beffardamente irraggiungibile. Se avete visto film come Frozen (no, non quello della Disney.. Let it goooooo ehm… dicevamo… Ndr) o Alla deriva conoscete quel senso di grottesco disagio dato dal constatare che per separare vita e morte basta un secondo, un centimetro, un grammo.
La commissione tra il survival/claustrophobic e lo shark movie non è cosa nuova e anzi accadeva anche quasi contemporaneamente su altri schermi. Tuttavia la mossa di ambientare l’azione sul fondo del mare, anziché in superfice o su uno scoglio, permette al film di giocare costantemente sia col senso di claustrofobia percepito dall’avere 5 atmosfere d’acqua sulla testa che con l’agorafobia data dal vasto vuoto blu. Una scelta quasi paradossale che però costituisce la summa del nostro disagio nonché di quel concetto di valorizzazione dell’ambiente di cui parlavo prima. Non male per un film girato quasi interamente in una piscina.
“È previsto che si vedano degli squali, nel suo film degli squali?” chiederebbe un beffeggiante Ian Malcolm e probabilmente pure voi. Non sto dicendo che gli squali non si vedano mai, anzi, quando si palesano sono bellissimi, il film ha alcune sequenze prettamente horror e voi strillerete forte. Ma è evidente che le scene migliori siano quelle in cui i pescioni sono fuori schermo, magari comparendo come un’ombra sul fondale mentre le nostre protagoniste cercano di capire se la gabbia che le ha portate laggiù sia più una tomba da cui fuggire o un bunker in cui rintanarsi.
Purtroppo c’è un purtroppo, ma non ve lo dico perché sarebbe spoiler. Diciamo solo che è un purtroppo di 2 minuti e 40 secondi.
Filmone – 2.40 (e qualcos’altro sparso qua e là)
Titolo | 47 meters down
Regia | Johannes Roberts
Durata | 87 minuti
Anno | 2017