1917; di guerra, di hobbit e del rispetto per le istituzioni
Regia: Sam Mendes | Anno: 2019 | Durata: 120 minuti
Fronte occidentale, aprile 1917: due giovani soldati inglesi – George MacKay (Pride, Captain Fantastic) e Dean-Charles Chapman (un piuttosto ingrassato Tommen di Game of Thrones) – vengono scelti per una missione semi-suicida: superare la terra di nessuno ed entrare in territorio nemico, senza avere un’idea precisa di cosa sia in mano ai tedeschi e cosa sia stato già liberato, per recapitare un messaggio ad un reggimento di commilitoni che sta per cadere in un’imboscata.
Il regista Sam Mendes, già premio Oscar per American Beauty, decide di raccontare questa storia come un unico interminabile piano sequenza: non ci sono stacchi di camera tra una scena e l’altra, tutto è in continuità. Seppur ovviamente vengano adottati espedienti tecnici – come successe d’altronde in Birdman – per non dover girare un unico ciak da due ore, noi spettatori viviamo il tempo e lo spazio dei protagonisti, ci infiliamo con loro nel labirinto delle trincee, nel fango e nei cunicoli, corriamo nei campi e schiviamo le bombe.
Plauso speciale va quindi al direttore della fotografia, Roger Deakins (vecchia spalla dei Coen e di Villeneuve) che si è trovato a dover girare in esterni con luce naturale scene di una lunghezza estenuante il cui successo – o fallimento – poteva dipendere da una nuvola che oscurava il sole o, meglio, che lo scopriva, dato che tutto il film è girato sotto un cielo plumbeo che non lascia trasparire alcuna speranza.
Se da un lato questa tecnica permette di “vivere” in simultanea le avventure dei protagonisti, dall’altro aumenta la percezione di isolamento e smarrimento: la telecamera quasi sempre frontale rispetto al protagonista fa mancare allo spettatore qualsiasi punto di riferimento nello spazio. Si percepisce il tempo ma non la direzione. Non sappiamo verso cosa stiano andando i protagonisti, né se vadano in linea retta o se stiano girando in tondo. Persi nel paesaggio, noi come loro.
Pur ispirandosi palesemente a Salvate il soldato Ryan, questo film non ha né l’epicità né il sense of wonder tipiche delle narrazioni americane sulla guerra e che noi europei, dopo gli orrori delle due guerre mondiali (e di 2500 anni di mazzate pregresse), troviamo retoriche e stucchevoli.
1917 vuole invece essere la storia di due formichine affaccendate a vivere una storia piccola, come ce ne saranno state centinaia, mentre tutt’attorno si gioca una partita molto più grande di loro. Intendiamoci, anche gli americani amano raccontare la storia dal punto di vista dei “buoni, semplici cittadini che si trovano a fare cose più grandi di loro”, ma mentre i soldati americani sono figure quasi cristologiche che trovano nel sacrificio il coronamento della loro missione, gli inglesi – il Tom Hardy di Dunkirk è in questo un’eccezione – vedono il soldato più come vittima che come un eroe. Il vero eroe è invece colui il quale attraversa l’inferno non per trarne gloria ma per tornare a casa.
D’altronde, il vero eroe de Il Signore degli Anelli è Sam, non Aragorn.
I due protagonisti – esattamente come gli hobbit di Tolkien – sono fallaci, insicuri, impreparati, ingenui e vittima di queste loro caratteristiche, eppure eroici proprio grazie a questa pulsione di vita che, in un film dominato in tutti i sensi dalla morte, li spinge ad andare avanti.
Certo non è un film esente da difetti.
Ogni tanto ad esempio quella retorica di cui parlavo tende ad emergere (l’incontro tra il protagonista e la famigliola francese in una sorta di presepe vivente sotto le bombe è un momento abbastanza cringe), i tedeschi sono nemici quasi caricaturali e i personaggi secondari avrebbero meritato qualche linea di dialogo in più. Ci sarebbe poi da parlare a lungo sul perchè un regista scelga di girare un film adottando una tecnica per poi doversi inventare continui trucchetti per aggirarla, uno dei quali talmente sfacciato che i più maliziosi – quindi me compreso – non potranno non pensare che sia stato fatto solo per poter girare una scena in notturna e vincere un, peraltro già meritatissimo, oscar alla fotografia.
Infine, sarebbe stato interessante approfondire di più l’ambientazione – tutto sommato insolita – della prima guerra mondiale, sfruttando quegli aspetti descritti da Ungaretti, Lussu e Remarque (l’esperienza della trincea, lo shell-shock, il contrasto tra mentalità risorgimentali e armi industriali) che avrebbero reso questo film non solo un grande film, fatto con maestria e perizia tecnica, ma anche un’interessante aggiunta alla già piuttosto affollata lista di film bellici.
Un’occasione sprecata se volete, ma sicuramente sprecata bene.
Il cinema di guerra sta ad Hollywood come i tortellini a Chef Barbieri: puoi essere talentuoso e innovativo quanto vuoi, ma la tradizione é il punto di partenza, l’istituzione verso cui qualsiasi regista che abbia vaghe pretese di affermazione dovrá mostrare rispetto ed umiltà.
Dopo quella spallata antimilitarista e dissacrante – e per questo massacrata dalla critica – che fu Jarhead, Mendes ha imparato la lezione. 1917 è un film moderno nella sua classicità (da Senofonte in poi, quella di pochi soldati che si trovano separati dal resto dell’esercito con un obiettivo da raggiungere è una delle trame più scelte per raccontare la guerra) ed è rapidamente diventato uno dei protagonisti della stagione premi.
In un’annata come questa, con Hollywood che si sente minacciata da un futuro di cui tutti parlano ma che nessuno capisce e dove a scontrarsi ci saranno cinecomic, film post-moderni, altri internazionali, altri ancora che manco sono usciti a cinema, 1917 è il film che serviva per mettere d’accordo tutti pur non entusiasmando nessuno: giovane ma non trasgressivo, deciso ma educato.
Bello & istituzionale.