L’accurato silenzio della Rothko Chapel

L’accurato silenzio della Rothko Chapel

La Rothko Chapel - Fonte: PublicDelivery.org

“Silence is so accurate.”
“Il silenzio è estremamente accurato.”

La cappella Rothko si trova in un giardino piuttosto anonimo in un quartiere residenziale di Houston, la metropoli dello stato americano in cui tutto è ancora più grande del grande di qualsiasi altro stato americano.

La sua funzione è unire, celebrare l’uguaglianza, dare eco all’uguaglianza sociale e culturale, ma l’interno non è granché accogliente: mura stuccate di grigio, un pavimento di piastrelle grigio scuro, otto panchine dal colore poco vivace distribuite per le stanze. E poi i dipinti: quattordici, tutte tele nere con delle leggere sfumature di colore, ognuna diversa ma a malapena percepibile. Nulla che colpisca l’occhio, che innalzi l’anima alla meditazione, che sorprenda con la sua bellezza mistica.

L’uomo che gli dà il nome era prima di tutto un artista. Markus Rotkowičs, noto come Mark Rothko, nacque ad inizio novecento in un piccolo paesino della Lettonia, per poi trasferirsi con la famiglia a Portland, in Oregon. Avrete probabilmente visto uno dei suoi quadri: sono spesso affissi sotto forma di poster brillanti in studi medici, case in stile moderno sulle riviste di abbigliamento, lunghe tele verticali con colori nettamente distaccati, disposti in grandi quadrati, strisce di varia grandezza. Hanno nomi poco originali – cose come “senza titolo”, “nero su marrone”, “Numero 10”.  

Il genere di quadri che uno non capisce, della categoria “questo lo saprei fare anche io”. Eppure qualcosa si cela dietro quei blocchi di colore. Non c’è nulla di astratto, niente che si esaurisca nel semplice accostamento cromatico.

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Si dice che Rothko, ottenuti i primi successi, si infuriò moltissimo nel vedere i suoi quadri in un salotto. Nelle sue intenzioni, nella tempera compatta si nasconde un mondo oscuro e tormentato, qualcosa che non va sbandierato come un grazioso trofeo sopra il tavolo da pranzo.

“Non sono un astrattista.” dichiara “Non sono interessato alla relazione tra colori, o forme, o qualsiasi altra cosa. Sono unicamente interessato ad esprimere le più basilari emozioni umane: tragedia, estasi, dolore, e così via.”

Ecco che allora la quasi totale assenza della pennellata era un mezzo per rendere il quadro il più essenziale possibile, per permettere al colore di stimolare indisturbato le più profonde reazioni emotive nello spettatore. Il quadro va osservato in silenzio, perché solo nel silenzio e nella meditazione riesce a comunicare al meglio il proprio significato. La sua localizzazione ideale non è un salotto rumoroso, bensì una parete grigia, in una stanza vuota, in cui esprimere il pieno potenziale del suo linguaggio.

La scelta di moltiplicare lo spazio della tela con una semplice, vastissima distesa di colore che sembra uscire dalla cornice per diffondersi dell’aria (“un quadro di grande formato è più intimo e umano, perché ti permette di abitarlo, di ‘starci dentro”); la totale assenza di figure riconoscibili, persino quei titoli vuoti di qualsiasi significato attribuibile: tutto questo era una scelta decisa, la volontà di spogliare la propria opera di qualsiasi significato se non quello attribuibile soggettivamente. Rothko voleva lasciare spazio all’interpretazione dello spettatore, permettere che l’opera si adattasse al mondo emozionale di chiunque la guardasse. Come una musica senza parole, voleva ispirare senza imporre, sperava che i suoi colori apparissero tutt’altro che fermi. Ai suoi occhi pulsavano, si espandevano, abbracciavano chi li ammirava.

Si infuriava addirittura con critici e studiosi che ambivano ad attribuire un significato a ciò che dipingeva, colpevoli di voler tradire il senso reale del suo processo creativo: la sua arte era un dono a chi la guardava, doveva urlare e celebrare desideri ed emozioni, era pittura che nella sua assenza di riferimenti umani ambiva ad essere il più umana possibile.

La Rothko Chapel – Fonte: Houston Museum District

Rothko voleva disperatamente comunicare, e voleva che il suo colore trasudasse emozioni; le sue erano talmente vive che solo geometrie semplici e colori netti e ben stesi avrebbero potuto lasciare il giusto spazio per la loro espressione, senza offuscarne l’intensità.

Non ci riuscì mai fino in fondo: dopo una lunga battaglia contro la depressione, l’artista si suicidò nel 1970 nel suo studio di New York, schiacciato da un’emotività che non era riuscito ad esprimere e che alla fine l’aveva sopraffatto.

Eppure, in questa comunicazione che solo il silenzio può rendere assordante, l’arte di Rothko sembra aver trovato in questo luogo la sua perfetta espressione. Le sue opere sono immerse nella quiete, appese indisturbate alle pareti grigie, e quando risuonano parole non sono mai vane ma sempre indirizzate alla connessione, la mediazione, un ponte tra culture e forme di pensiero.

In questo luogo silenzioso immerso nel frastuono della metropoli, finalmente comunicano.

“It is really a matter of ending this silence and solitude, of breathing and stretching one’s arms again.”

“E’ davvero questione di porre fino al silenzio e alla solitudine, di respirare e ancora una volta tendere le braccia.”

Ottavia Mapelli

 

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