Una settimana da pastore (redazionalmente testata)
Vivere da pastori sulle Orobie bergamasche per una settimana è possibile.
È la prima notte sulla bèna, il soppalco coperto di materassi, trapunte e lana di pecora dove dormono tutti insieme gli abitanti e gli ospiti della baita, vegliati da sette cani da raduno, otto vacche, tre cavalli, sette asini e un mulo con le zampe da zebra. Non prendo sonno, il pensiero fisso è che a Cremona stia capitando qualche sciagura dovuta alla mia proverbiale sbadataggine, ad esempio che mi stia bruciando casa e nessuno mi possa contattare, dato che qui non c’è campo né elettricità per caricare il telefono.
Mi addormento sognando catastrofi e mi sveglio dopo un tempo imprecisato, certa che morirò se non dovessi trovare a breve un modo per fare pipì. L’unica possibilità è svegliare i pastori calpestandoli, scendere dalla scala di legno a pioli appoggiata al muro, trovare delle scarpe, una torcia e uscire nel prato della baita generando scompiglio nei sette cani, che farebbero ragliare gli asini, muggire le mucche e chissà cos’altro. Mentre aspetto che il problema si risolva da solo sento all’improvviso i cani agitarsi ed abbaiare tutti insieme, ci deve essere qualcosa là fuori e sono certa sia uno dei dieci orsi che popolano le Orobie bergamasche, del resto noi volontari del Progetto Pasturs siamo qui proprio per questo, supportare i pastori nella difesa del gregge favorendo la convivenza tra i grandi carnivori delle Alpi e la zootecnia locale.
Bellissimo, in teoria, ma questo non significa che io sia pronta a trovarmi faccia a faccia con l’orso in piena notte, non da sola, non il primo giorno; mi dispero e l’unica possibilità che mi rimane è temporeggiare sperando che passi. Dopo minuti interminabili mi riaddormento tornando a sognare catastrofi casalinghe e affanni del mondo di pianura, quello da cui sono scappata.
La mattina successiva la storia dell’orso suscita grande ilarità tra i proprietari della baita, che ben conoscono il baccano immotivato prodotto ogni notte dai loro cani, per cui, mentre preparano un caffè, liquidano i miei timori con una risata dicendo di non pensare più all’orso e di preoccuparmi piuttosto del cavrabèsol, l’uccello strega della tradizione popolare delle Valli bergamasche, che viene di notte per rapire i bambini o succhiare il latte dalle capre rendendole cieche. Me lo segno, ci starò attenta.
È giorno fatto e qualcuno dei pastori è già partito, gli altri si incamminano verso il pascolo. Mi trovo nella baita Foppane, da qualche parte sopra Gandellino a 1993 metri, è l’alpeggio più alto delle tre baite di Fontana Mora e qui il pastore Aldo Pasini e i suoi collaboratori trascorreranno l’ultimo mese e mezzo tra i pascoli verdi di alta montagna, prima di tornare in paese per l’autunno.
All’interno della casa di pietra, composta da due sole stanze, gli oggetti in plastica si fondono con quelli intagliati nel legno, è lo stesso Aldo che sulle porte, sui manici degli ombrelli, sulle bacinelle di legno dette basgiót e sugli appendiabiti, fatti di rami di maggiociondolo, incide tante stelle alpine, le sue iniziali e a volte un “W 1956”, il suo anno di nascita. Di fronte all’ingresso campeggia un quadretto con l’effigie di Sant’Antonio, protettore delle bestie, vere padrone dell’altopiano incorniciato dalla Val Brembana, dalla Val di Scalve e lontano, a Nord, dalla Valtellina.
Quando qualcuno è nella baita risuona nei pascoli a 2000 metri una radiolina a pile, sempre sintonizzata su Antenna 2, l’emittente della vicina Clusone che alterna i tormentoni dell’estate, i grandi classici della musica italiana, la pubblicità delle più importanti sagre dei paesi delle valli e i notiziari locali con i fatti straordinari dei monti bergamaschi, come quello del cane entrato nella tana di un coniglio selvatico e salvato a oltre tre metri di profondità dai vigili del fuoco. Le notizie, come ogni altro fatto della montagna, vengono commentate esclusivamente nel dialetto della Val Seriana, anche i cani sembrano comprendere solo comandi in bergamasco come “pàsa via”, “pasa fò”, “vai bàia” e obbediscono abbaiando, allontanandosi o avvicinandosi al gregge mentre io pian piano familiarizzo con la parlata e, quando capisco, rispondo in cremonese. Aldo mi racconta che un tempo in alpeggio si parlava l’antica lingua “Gaì” un gergo con tracce di latino e furbesco che oggi quasi nessuno usa più, ma che fortunatamente è stato salvato e trascritto in quel capolavoro di ricerca sulla storia locale che è Mondo Popolare in Lombardia, Bergamo e il suo territorio di Roberto Leydi, dove esiste una ricerca sulle origini del Gaì e un dizionario completo dei termini. Io, oltre a fare domande su tutto, inseguo cani e asini, trasporto qualche agnellino, imito i gesti dei pastori e quelli di Giulia, la mia giovane compagna di avventura, nata nel New Jersey e cresciuta in terre manzoniane. Giulia è veterinaria e, mentre cita passi dei Promessi Sposi, mi insegna tutto sugli animali e qualcosa sull’America, mentre io straparlo di vette e rifugi, approfittando di ogni momento libero per trascinarla con me su tutte le alture che ci circondano, così da vedere più da vicino le rocce bianche della Presolana o il gregge dall’alto.
È l’ultima notte sulla bèna e oramai so che a fare baccano non è l’orso né il cavrabèsol ma solo la cagnolina Perla che dorme poco e abbaia molto, soprattutto di notte. Esco e osservo il cielo stellato dei duemila metri, so che domani tornerò ai miei affanni di pianura mentre qui, come ogni giorno di ogni estate, nascerà un agnellino, arriveranno gli amici con le formaggelle e, al sorgere della luna, apparirà un camoscio solitario sul passo degli Omini, tra la cima Benfit e le nuvole bianche.
Melissa Fontana